In nome di una logica perversa di audience i media trasmettono la macabra propaganda autoprodotta e diffusa tramite web da Daesh (acronimo arabo per indicare l’Isis), che detta molto spesso l’agenda mediatica.
Un marketing di messa in scena del terrore che usa i media tradizionali per amplificare un brand della paura e insicurezza generale, e riesce a fidelizzare il proprio target di riferimento in un bivio d’identità e appartenenza al gruppo.
Al momento si sta provvedendo con l’incremento della moderazione sui contenuti e la ricerca di nuovi strumenti come i database, anche se già si pensa all’utilizzo dell’intelligenza artificiale.
Da un lato ci sono le grandi compagnie della Rete e dall’altro i governi cui si chiede di definire accordi internazionali per regolamentare il cyberspazio, in modo da prevenire la diffusione dell’estremismo e del terrorismo.
La sfida principale è rivolta a un giornalismo che riscopra il ruolo e l’importanza che riveste nella società e che è andato perdendo negli ultimi decenni: verifica nell’uso delle fonti, senso delle proporzioni, studio-investigazione dei temi di politica internazionale, rapporti interni di potere e religione e del crimine transnazionale. Perché per anni non si è mai parlato dei territori sunniti dell’Iraq dove Daesh stava crescendo, e oggi non s’investiga sul terrorismo connesso e globale anche nelle Filippine, Bangladesh o Golfo di Guinea?
Raccontare in modo superficiale singoli attacchi, senza riflettere sul linguaggio e immagini da utilizzare e gli approfondimenti da effettuare, significa incentivare la propaganda terrorista. Usare il concetto di “Stato Islamico” o termini glamour come “Jihadisti” significa accostare loro un potere religioso e politico che non hanno. Usare il termine “guerra” significa trattare i terroristi come soldati e non come assassini, rivelando che è in atto una lotta anche alle parole e agli acronimi che non deve essere sottovalutata.
Scrivere “è solo un’ipotesi ma…” relativamente a presunte rivendicazioni, non distinguere quello che dice la propaganda da quelli che sono attacchi “ispirati”, non condotti direttamente dall’Isis, è segno di irresponsabilità e negligenza professionale. Soprattutto nei primi momenti di confusione e caos tra notizie false, trolling e speculazioni propagandistiche la deontologia dovrebbe imporre controllo e filtraggio delle fonti. Non è utile diffondere nomi, foto e storie degli assalitori quasi “idealizzandoli” come “sofisticati registi del male”, né mostrare immagini e scarsa empatia nei confronti delle vittime. Riportare in maniera acritica la retorica polarizzante di un “noi” o “loro” senza indagare sulle risposte che dà la politica, non autoimmunizzarsi contro la scarsa deontologia del collega o dell’esperto mediatico rischia di contribuire a rafforzare come un movimento globale un gruppo terroristico che ha compensato la propria debolezza economica, militare e politica con la strategia comunicativa, e indebolire quelle democrazie che limitano i diritti e le libertà dei cittadini per un’astratta esigenza di sicurezza.
Non contestualizzare gli attacchi a pochi assassini, piuttosto che a una religione di 1,8 miliardi di fedeli come l’Islam, significa alimentare ostilità, pregiudizio e una serie di ritorsioni verso tutti i musulmani i cui valori e fede non rispecchiano di certo quel terrore. I combattenti del Califfato di Al Baghdadi hanno dichiarato guerra anche alle popolazioni colpite in Siria e Iraq a maggioranza musulmana, e il 14 giugno 2016 a Nizza e il 22 marzo 2016 a Bruxelles dove c’erano anche parecchi musulmani.
L’articolo “Cari Musulmani Americani” pubblicato sul magazine di AQAP, Al Qaeda nella penisola arabica, è una chiara dichiarazione di guerra rivolta ad altri islamici nell’intento di radicalizzarli.
I media sono criticabili più per quello che non fanno rispetto a quello che fanno, tacendo manifestazioni pubbliche come #notinmyname di attivisti musulmani contro il Daesh su cui calano uno sgradevole silenzio, per nulla considerando l’impatto della loro cronaca sulle comunità islamiche in Occidente.
Gli operatori dell’informazione devono trovare il giusto equilibrio tra il diritto di raccontare e la responsabilità etica di proteggere i loro destinatari nella verifica e confronto delle fonti, senza trasformarsi in un fazioso “megafono del potere”. Più che creare scalpore, dovrebbero investigare su come i gruppi terroristici si muovono nei social media, su quali legami hanno con il mercato internazionale e quello del petrolio, sulla mancata azione dell’intelligence e sugli interventi militari messi in atto per contrastare il terrorismo.
da Una Stellin prestata alla politica nel web 2.0